lunedì 3 novembre 2014

Tuti bei, dal primo all'ultimo - Il racconto della mia seconda Venice Marathon

Ciao a tutti!
Raccontare il giorno della maratona, il giorno atteso da mesi, per non dire da un anno intero, non è cosa facile. Parlare di ciò che hai dentro, di ciò che tieni dentro per tanto tempo, paure, desideri, sogni, attimi, è impresa difficile. E infatti sono necessarie ore di riflessione per mettermi finalmente sulla tastiera di un computer e iniziare a battere tutto ciò che transita per la mente riguardo a domenica scorsa.

Dietro di me, il Canal Grande
Paure: quella di arrivare in fondo con un ginocchio a pezzi non è mai realmente scomparsa del tutto durante i mesi di preparazione. Al minimo dolorino i timori crescevano, eccome se crescevano. E nell’ultima settimana i piccoli dolori, anche quelli più stupidi diventano giganteschi. È tutto un effetto mentale, o chiamiamola tensione, se preferite. Questa volta mi presento a Stra, alla partenza della mia quinta maratona con un dilemma in più. Un banale incidente per le vie di Torino, un’abrasione al ginocchio sinistro (non quello incriminato ma già ferito quest’estate), e il dubbio: arriverò fino alla fine? Io credo di si, ma quarantadue chilometri sono lunghi e in più di tre ore di cose ne possono succedere veramente parecchie.

L'alba di domenica, l'alba dell'edizione 29 della Venice Marathon


Desideri: beh, prima di tutto arrivare in fondo, magari farlo anche alla grande. Un anno fa realizzavo il mio personale, nel frattempo ho sofferto molto, più mentalmente che fisicamente. Esserci nuovamente è già molto bello, esserci e migliorare quanto fatto l’anno scorso sarebbe spaziale. Tornare e tornare più forti di prima, questo è il sogno.

Sono solo i primi chilometri


Il risveglio in albergo è all’insegna dei grandi nervosismi pre-maratona: passeggio concitatamente in camera, cercando di sistemare pettorale, cerotti e fascia cardio. Giulia (fortunatamente per lei) dorme ancora e posso solo scaricare parzialmente la mia tensione quando la saluto per andare a fare colazione, con quel “torno presto” che accompagna ogni nostro distacco. La colazione è velocissima: ho solamente venti minuti per ingerire quei carboidrati che brucerò celermente nel giro di poche decine di minuti. Nella sala colazione dell’albergo ci sono solo runner, talvolta accompagnati dalle loro mogli o compagne. Tutti silenziosi, assorti nei loro pensieri. Magari avvolti anche loro da un’aura di desideri. O coperti da una nube carica di angosce.

Prima curva a destra


Inizio a star meglio nel taxi che ci porta alla stazione ferroviaria di Mestre, da dove partono i pullman per Stra. Con me ci sono due ragazzoni svedesi, al primo appuntamento con la Venice Marathon. Sono cinque minuti piacevoli, racconto loro un po’ del percorso, come per scaricarmi e allo stesso tempo ripassare il percorso.
Fuori si gela. Ci saranno cinque gradi, non di più. Nel frattempo arriva il tanto desiderato bus. Dove potrò sedermi e cercare di trovare un po’ di tranquillità. Non ho interlocutori o compagni di avventura, non è come a Torino in cui è per me facile trovare qualche faccia conosciuta. Sono da solo, qui: saranno trenta minuti in cui ora non so dire cosa ho fatto o pensato. Credo di aver fatto un lungo viaggio in me stesso, infine. Perché una maratona è anche questo, un lungo viaggio dentro se stessi, alla ricerca di qualcosa che ti porta a compiere una fatica così grande. Ed è anche un grande viaggio nel passato, in quello che sono stato giorni, mesi e anni fa, e nel presente, a ciò che sono ora.

Transito a Mestre


Quando si raggiunge Stra non ho proprio voglia di scendere, il freddo è ancora tanto, nonostante il sole sia già ampiamente alto in cielo. La Riviera del Brenta accompagna me e i vari compagni di viaggio fino alla zona partenza, dove la folla è già numerosa. Code per i servizi igienici, code per il tè caldo, code anche per entrare nel tendone dove ci si ripara dal freddo prima di cominciare a correre. Questo tendone puzza di creme riscaldanti, qualcosa di cui non faccio uso ma sono un must per molti podisti. Io attendo qui il momento propizio per spogliarmi e iniziare il riscaldamento. Mangio due gallette di mais, senza un vero motivo. Poi controllo che tutto sia a posto nella borsa che troverò all’arrivo. Quindi faccio che giocare un po’ con il cellulare: ogni mezzo è buono per distrarsi. Poi arriva l’ora di togliersi la tuta. Ora si fa sul serio: c’è da eseguire un po’ di riscaldamento e molto stretching. Queste sono le operazioni che mettono in me molto nervosismo. In quei momenti non sai mai se lo stai facendo bene o no. E poi ovviamente se c’è un piccolo fastidio, voilà, eccolo che lo senti triplicato. Il ginocchio torna a bussare sui tuoi nervi più scoperti. E c’è quella paura, quel timore che sì, ti porta a scavalcare il guardrail, scendere in riva al Brenta e lasciare un piccolo ricordo, una fugace testimonianza in dono alla natura.
Quando decido che il riscaldamento è terminato, mi avvio verso le gabbie. La mia è la numero 2, colore giallo. Passo davanti a Villa Pisani, una delle residenze più belle del Brenta: si, l’inizio della Venice Marathon è veramente da brivido, in una tale location. Quando entro nella gabbia manca ancora mezz’ora allo sparo che decreterà il via alla maratona. In quei trenta minuti si pensa di tutto e si vede di tutto. Sono molti i siparietti curiosi a cui ho assistito, come quello dei runner in fila sulle transenne intenti a rimuovere gli ultimi liquidi, o come i lanci di maglioni verso i prati di Villa Pisani, prontamente raccolti dagli extracomunitari lì deliberatamente appostati. Però il più bello è anche quello che sogno di poter vivere in prima persona un giorno: una mamma con il proprio figlio, che tiene in mano un palloncino; sopra vi è scritto “forza papà”. Ecco, la maratona è anche questo.

La partenza da Stra (foto by A. Marini)


Arriva il momento dello sparo. Sono molto vicino – inspiegabilmente, nonostante la gabbia -alla linea di partenza, quindi so che il tempo che segnerà il cronometro all’arrivo sarà molto vicino a quello netto. Ma per i calcoli non c’è molto tempo ancora. Bisogna solo pensare a correre. Ovviamente parto abbastanza forte, senza neanche rendermene conto. Sempre così, in maratona. L’attraversamento del primo comune, Fiesso d’Artico, non aiuta a rallentare il mio ritmo, ma mi devo imporre una condotta di gara più oculata rispetto ad un anno fa. Cosi sarà: fino ai trenta chilometri il mio ritmo sarà veramente molto costante tra i 4’34”/km-4’38”/km. Correre così mi permetterebbe di chiudere a Riva Sette Martiri in 3h14’. Sognare è lecito, ma qui si tratta di qualcosa di impossibile. So di andare troppo forte, so che pagherò in fondo. Però so anche che è un ritmo buono e soprattutto molto costante.

Passaggio ai 30 chilometri


Un anno fa a rovinare parte della prestazione era stata l’alimentazione in corsa. Quest’anno, memore dell’esperienza dell’anno scorso e dei consigli del prezioso libro di Arcelli (vedi post), ho provveduto a rifornirmi di bustine di zucchero per poter rifornirmi continuamente di glucosio, limitando così l’assunzione di frutta sul percorso (che al sottoscritto lascia spiacevoli squilibri gastrici, con un’influenza di circa 10” a rifornimento). La tecnica funziona: lo zucchero scende giù molto più facilmente rispetto a banane e mele. Anche il rifornimento alla mezza maratona, un anno fa ai limiti del letale, passa via in scioltezza.

Muscolatura impressionante


La Riviera del Brenta non delude. L’incoraggiamento è festoso dall’inizio alla fine, in tutti i paesi. In particolare a Dolo e a Mira la folla è scatenata. Il clima è veramente positivo, favorito anche dall’incredibile sole che splende sul Brenta. Giornata perfetta per correre: c’è anche un po’ di venticello, molto gradito, in quanto mi permetterà di non sudare per quasi venticinque chilometri di corsa.
Correre di fianco al Brenta è veramente piacevole e nella prima parte di gara, grazie al paesaggio, all’atmosfera festante, ad un meteo eccezionale, non ci si accorge che si sta correndo una maratona. Tutto pare eccezionalmente facile, ma è sempre così, in ogni maratona. Si arriva dunque alla mezza maratona senza alcun intoppo, fatta eccezione per il cerotto kinesio applicato sul “famoso” ginocchio destro: non regge e dà solo noia, meglio toglierlo. L’attraversamento di Marghera è invece qualcosa di notevolmente fastidioso. Tralasciando la bruttezza della zona industriale, vi è un sottopassaggio che conduce a Mestre che attira a sé molte maledizioni, soprattutto a causa della risalita, forse più ripida di qualsiasi altro ponte in Venezia. A Mestre ci accoglie una folla nutrita: l’anno scorso mi diede modo di imprimere una bella accelerazione (che pagai alla fine); quest’anno mi contengo, memore delle fatiche di un anno fa.

Piazza San Marco è qui


Si può dire che a Mestre inizi veramente la maratona. Le mie gambe stanno bene e il morale è alto, avendo battezzato le “lepri” giuste per una decina di chilometri. Ma in uscita dalla città iniziano anche le prime difficoltà. Innanzitutto, il vento si fa più accentuato ed il sole diventa una presenza continua: essendo già le 11, si avverte il caldo. Poi, cominciano i primi dolori. Prima, la fitta al ginocchio destro, quello incriminato. Poi, un ginocchio sinistro (tutto quanto) che pare addormentato, come fatto secco da un’iniezione di morfina. Tutto passa, fino ad un certo punto. Dopo, dolori continui, fino alla fine. In realtà, le difficoltà, quelle vere, che arriveranno, sono altre.

Correre una maratona è anche questo... tutti contro la SLA


Il momento chiave della mia maratona e del mio rendimento in corsa è ancora una volta al Parco San Giuliano, dove cade il chilometro 30. Qui si corrono circa 3-4 chilometri in totale, che iniziano con un lungo e insidioso ponte. Dopo, un tortuoso saliscendi che conduce al Ponte della Libertà. È un tratto che molti non amano, a causa delle salite e delle numerose curve che lo contraddistingue. Io ci arrivo con un’ottima gamba, tanti altri no. Inizio a sorpassare e, galvanizzato, non metto freno all’entusiasmo. Sorpasso in continuazione, scendo anche sotto i 4’30”/km. Questo è troppo per le mie gambe. Di lì a poco pagherò con gli interessi. La salita che porta al Ponte della Libertà prima, e il ponte stesso, dopo, mi porteranno a correre anche venti secondi in più ad ogni chilometro. Sul Ponte della Libertà, rispetto ad un anno fa, c’è il vantaggio psicologico di poter già vedere lo skyline di Venezia. Si, i campanili di Venezia sono un bel punto di riferimento, ma quando soffia il vento è inevitabile dover rallentare il ritmo. Si fa più fatica respirare e il proprio corpo necessita di consumare più ossigeno per mantenere lo stesso passo. Si, faccio veramente fatica. Anche qui trovo una “lepre”. È un ragazzo che forse si chiama Stefano, o Simone, o Sergio, che ne so, ma ci sorpassiamo e controsorpassiamo a vicenda sull’ampia carreggiata del Ponte della Libertà, e ci diamo un notevole vantaggio psicologico. Intanto, stringendo i denti e cercando le più recondite energie interiori, questi tanto maledetti quanto scenograficamente meravigliosi chilometri giungono al termine: si entra finalmente a Venezia!

"Ce l'ho fatta, ancora una volta"


L’ingresso a Venezia avviene ovviamente dal lato ovest dell’isola, quello sicuramente meno interessante: qui la scena è dominata da un mare di asfalto e cemento. Questa è la zona del Tronchetto, di piazzale Roma e del porto, inutile aggiungere altro. Rispetto a un anno fa c’è una brutta sorpresa. La rampa di accesso all’isola viene completamente attraversata dalla corsa, e non elusa da un apposito sottopassaggio. È una discreta salita che i podisti si ritrovano al chilometro 37 di corsa. Non fa piacere, ecco. La fatica è tanta e l’acido lattico, ahimè, fa già male. Si, c’è una bella discesa, dopo, utile per rilassare braccia e gambe. Ma una salita seguita da un’importante discesa è tuttavia molto più deleteria in termini cronometrici di un’unica leggera discesa.
Beh, questa salita non vuole finire mai. Gli ultimi metri dello strappo sono accompagnati da molti incoraggiamenti e ce n’è un gran bisogno. Il sole annerisce l’asfalto e assieme al vento crea le peggiori condizioni di corsa fino a quel momento. Ma tutte le fatiche, prima o dopo, devono giungere al termine.

La Serenissima attende... (foto by L. Di Maio)


C’è più di un chilometro da correre nella zona portuale. Da una parte ci sono gli stabili del porto, dall’altra le navi di MSC e Costa, impetuose. Indubbiamente ci si sente piccoli piccoli. È un piccolo pensiero, un piccolo diversivo dalla fatica costante che si sta provando. Una sorta di zig zag tra quelli che sembrano essere magazzini e poi si inizia a vedere il Canale della Giudecca. Poi c’è il primo ponte. Ne seguiranno altri tredici. La quantomai lunga e al contempo breve “cavalcata” di quattro chilometri all’interno della città più bella del mondo, verso Piazza San Marco e verso Riva dei Sette Martiri, ha qui inizio.
Tutto è perfetto. C’è una folla che ti sprona a non mollare – e come potremmo – anche pronunciando il tuo nome. Il canale della Giudecca raggiunge stupefacenti picchi di bellezza. Mare e cielo, tutto quel blu. Il lastricato delle fondamenta del sestiere Dorsoduro, la facciata della chiesa dei Gesuati, tutto quel bianco. È meraviglioso esserci, è fantastico essere parte di questa scena, un piccolo puntino che corre ai bordi di Venezia.

L'arrivo del vincitore, l'etiope Mamo


La strada, o meglio, il passaggio, si fa veramente stretto quando ci si avvicina a Punta della Dogana. C’è spazio praticamente per un solo corridore, o quasi. Mi ritrovo una coppia di podisti e non è facile sorpassarla. Quando lo faccio mi ritrovo sul ponte che attraversa il Canal Grande. Stupore, come sempre d’altronde. Sono poche centinaia di metri, ma sono parte di ciò che dalla tua mente non scapperà mai più via. Non so perché corro, non so quanto forte corro, ma corro e basta, con la testa costantemente rivolta verso sinistra, verso qualcosa di magico. Non so se sto soffrendo, ma dentro e fuori di me c’è un sorriso enorme, che rimarrà impresso nell’obiettivo del fotografo appostato al termine del ponte.

Il ponte sul Canal Grande (visto dal vaporetto del ritorno)


Il passo successivo è Piazza San Marco. Il momento più atteso, da quando iniziai a coltivare l’idea di tornare a Venezia per la Venice Marathon. C’è un piccolo tratto sotto gli alberi subito dopo il ponte sul Canal Grande. Qualche bancarella di souvenir, poi un minuscolo ponticello, quasi impercettibile. Palazzo Ducale è già lì, inconfondibile, con il suo incantevole colonnato in stile gotico veneziano, dietro alla colonna con il leone marciano. Si, ci siamo. Ci sono, Piazza San Marco è qui. È qui che si concentra la maggior parte dei tifosi e degli accompagnatori. Anche Giulia mi sta aspettando qua, come l’anno scorso, da qualche ora. Devo fare attenzione a vederla, oltre che a schivare le pozzanghere presenti nelle depressioni della piazza. So che mi attende all’incirca all’altezza del Caffè Florian, come un anno fa. La vedo, finalmente, e questa è una delle immagini più belle dei miei 42,195 chilometri. Non solo perché lei è bellissima, come sempre d’altronde, ma perché protrae le sue braccia verso di me, distese come a voler afferrare qualcosa. La preda sono io, e non oppongo resistenza. Io non so ancora bene ora cosa sia successo in quei sedici secondi (si, sono proprio sedici), da questo punto di vista l’amore fa brutti scherzi. Un abbraccio, forse. Un bacio, probabilmente. Una promessa che vale una vita intera, sicuramente.
Poi riparto. Al traguardo di Riva dei Sette Martiri manca ancora più di un chilometro. Ho ancora un personale da conquistare.

Arrivo!


Non si vorrebbe mai lasciare Piazza San Marco: questa piazza è speciale, emana un’atmosfera distensiva, di pace. Ma è una maratona. Quando corri questa distanza ciò che hai sotto i piedi scivola via imperturbabile, senza alcuna possibilità di accorgersene. E anche Piazza San Marco scorre, passando di fronte alla Basilica, alla Porta della Carta e a Palazzo Ducale. Inizia Riva degli Schiavoni e lo fa con il suo ponte più duro, il Ponte della Paglia, un nome che non dimentico da un anno. Lo superi. Poi un largo spiazzo, fino al ponte successivo. Così via fino all’Arsenale. C’è tanta gente attorno a te, sui ponti le grida sono ben definite. È una fatica che sembra non finire mai, ma paradossalmente finisce troppo in fretta. Si, corro ancora veloce, nonostante i ponti chiudo il quarantaduesimo chilometro in meno di cinque minuti. Gli attimi dell’arrivo…beh, quelli vorresti non finissero mai. La gente che ti incita e tu chiedi a gran voce il suo sostegno (con l’ultimo fiato che rimane), il sole che batte in faccia, una linea da oltrepassare. Dopo, tanta gioia, tanta fatica. L’ultima goccia di energia la uso per alzare le braccia al cielo. Stavolta non urlo. Guardo la foto del mio arrivo. C’è tutta la grinta di chi non ha voluto mollare dopo i dolori dell’inverno, la rabbia per i tanti mesi in cui non ho potuto correre, la liberazione da tutti i dubbi che hanno attanagliato la mente. Poi, guardo il cronometro. Il tempo che esso segna non può essere quello esatto ma è quanto basta per poter dire che ho stabilito il nuovo personale sulla distanza della maratona. La soddisfazione è ovviamente doppia.
Poco più avanti, dopo un cambio e un piccolo recupero di energia e carboidrati, rivedo Giulia. Il nostro abbraccio è la fine di un mese durissimo, fatto di tanti sacrifici: i miei, quelli in allenamento; i suoi, quelli dell’attesa solitaria di tante sere durante le mie corse; i nostri, quelli del conciliare tutto ciò con i lavori per una casa nuova, in un paese straniero. È un abbraccio che vuol dire tanto, tantissimo.

I'm a finisher (per la quinta volta)


3h17’21”, è questo il tempo ufficiale all’arrivo: 441esima posizione (su 4687 giunti all’arrivo), 71esima di categoria. Sono quarantasei i secondi di miglioramento all’arrivo. Più o meno era quello che mi aspettavo. Certo, non ci fosse stato quel vento sul Ponte della Libertà… non ci fosse stato quel ponte all’ingresso di Venezia… non ci fosse stato tutto quel caldo all’arrivo. Ma alla fine ho corso solo un’ora peggio dei professionisti: il vincitore, l’etiope Ketema Mamo, ha trionfato con il tempo di 2h16’45”, che è un crono altissimo. Anche la prestazione dei top runner è stata dunque decisamente influenzata dalle condizioni meteo, dal vento in particolare.
Ma a conti fatti non mi interessa tutto ciò. So di aver fatto qualcosa di importante, di bello. Per me e per i miei cari. Sono altre le cose che ti rimangono dentro. Cose che non si possono spiegare, cose che si potranno dissolvere solo alla fine dei nostri giorni.
Bis bald!
Stefano

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